Innovazione e un cambio graduale e consensuale ai vertici dell’azienda: sono queste le leve del successo della Sartoria dei fratelli Giuseppe (1973) e Nicolò (1972) Pinu a Nuoro, fondata nel 1954 da papà Aurelio, che ha vestito musicisti di fama internazionale, attori alla Prima del Festival del Cinema di Venezia, conta clienti anche in Francia, oltreché in tutta la Penisola e ha riempito molti cataloghi di moda e stile per aver saputo coniugare strumenti digitali e un lavoro fatto ancora con pennarelli, carta, aghi, filo e forbici.
Ma riavvolgiamo la storia dell’azienda, costituita da cinque unità, più qualche sarto con partita Iva, e raccontiamo con Giuseppe come è nata l’idea di uno, suo padre, che in una terra come la Sardegna, con lo sguardo sempre rivolto al passato, è stato un pioniere.
“E’ stato lui – afferma il più piccolo dei figli – a lanciare qui la cosiddetta moda fuori legge, cioè, il velluto caro ai briganti sardi – e a portare di fatto la moda nazionale in Sardegna, una regione che fino a quel momento conosceva solo abiti per i pastori. Per questo fino a qualche tempo fa Google lo indicava come il primo sarto in Sardegna ad aver rivoluzionato il modo di fare abiti per chi abitava in città”.
Come è iniziata l’avventura di papà Aurelio?
La sartoria si inaugura nel 1954, in un giorno di lavoro, con abiti commissionati, perché mio padre aveva rilevato una sartoria già avviata, in una città, appunto Nuoro, che negli anni precedenti era diventata una sorta di cittadella di sarti, come Capracotta, e Penne, in Abruzzo. All’epoca si contavano a Nuoro ventisette sartorie con dipendenti e pantalonaie al seguito su quaranta mila abitanti, quasi tutti occupati nel settore terziario avanzato. La città si era trasformata in poco tempo in un approdo sicuro per dipendenti di vari uffici pubblici – aperti proprio a Nuoro negli anni ’50. In quel periodo tanti erano i dipendenti di Banca d’Italia, Catasto, Genio Civile, Ferrovie dello Stato, ma anche parlamentari, che volevano vestirsi in modo elegante. Il giorno dell’apertura, fra autorità locali e qualche politico nazionale, la sartoria passa, dunque, dal maestro Luigi Sanna a mio padre.
I fratelli Pinu
Con quanti soldi e dipendenti è partito tuo padre e si è improvvisato sarto?
Nessuna improvvisazione. Mia nonna, la mamma di mio padre, era un’imprenditrice ed aveva un fratello, Antonio Mura, sarto, Forbici d’oro negli anni Trenta. Dall’età di sedici anni papà cuciva per i sarti della città, in particolar modo, per un siciliano che gli aveva fatto scuola. Ma voleva crescere. Così decide di frequentare le scuole italiane di taglio più importanti dell’epoca: quella del maestro Antonio Sandre di Torino, la Sartotecnica di Milano. Poi va a Bari, da Arduino Panaro. Di lui conservo i libri. Affina la sua arte a Parigi. Poi si trasferisce a Douai. A 27 anni, con un importante know how culturale ed economico, torna a Nuoro, la sua città di adozione, dove sua madre aveva l’azienda ortofrutticola, quindi clienti a cui poter vendere gli abiti. Inizia a lavorare con tre aiutanti: Antonio che lavora con lui per 20 anni, Tonino il figlio della vicina di casa e Paolo, il più promettente di tutti, che purtroppo muore giovanissimo. Negli anni i dipendenti diventano dodici e la sartoria confeziona quindici abiti ogni settimana, tutti cuciti a mano. Papà tracciava a mano su stoffa tutti gli abiti, con gesso di argilla, uno per uno, e tagliava con pesanti forbici di ferro. Si lavorava 24 ore su 24. A casa veniva solo qualche volta a pranzo la domenica.
Il primo cliente?
Di sicuro, i suoi primi clienti sono stati quelli della sartoria che aveva rilevato. Ci raccontava che aveva iniziato con gli abiti da fidanzamento, molto importanti, con i quali ci si presentava a casa della propria fidanzata per chiedere la mano ai suoi genitori. Erano abiti eleganti, che lui confezionava sempre con tagli francesi, tessuti pregiati e accessori come cravatte e pochette. Negli anni successivi si butta sugli abiti da sposo, molto diversi da quelli di oggi. Erano marroni, a fantasie spigate, senza gilet.
Il primo salto verso l’innovazione?
Avviene nel 1998, anno in cui a gestire la sartoria entriamo io e mio fratello. Sempre affiancati da mio padre, ma con una certa autonomia, decidiamo di trasferirci nei locali di famiglia in Via Antonio Ballero e in cinque anni creiamo quella che ora è la Bottega dei sapori, dove è raccolta la nostra storia. Due piani, uno per la rivendita e un altro che è un laboratorio, con legno e stoffe, profumi di sandalo e talco, macchine per cucire antiche, un ambiente che coccola il cliente, un ritorno al passato, dal quale non ci siamo mai staccati. Tradizione, ma senza perdere di vista le novità. Disegniamo con attenzione nuove collezioni, ci dedichiamo allo sposo, portiamo avanti un discorso legato agli abiti rappresentativi della nostra cultura, quelli di velluto che piacevano ai banditi sardi, cercando di rinnovarli. Meno folcloristici, più identitari, con tagli moderni. Con queste innovazioni iniziano ad aumentare ordini e clientela. La sartoria continua a crescere. Oggi siamo un’azienda di famiglia, modello per alcuni magazine del settore. Conservo una rassegna stampa interessante, oltre a libri dedicati alla nostra realtà (Mastros in Santu Predu, Etnu, Una moda fuori legge, Il velluto di Nuoro, l’Isola delle storie).
Le difficoltà più grandi che avete dovuto superare?
Ne abbiamo avute tante. Ma papà ci ha insegnato a non fare mai il passo più lungo della gamba. Quando c’è poco lavoro, si lavora sulla vetrina. Se si guadagna dieci, si investe tre. Inoltre siamo stati bravi ad adeguarci ai tempi e a innovare nel momento giusto. Gli ultimi investimenti? Abbiamo ristrutturato un immobile di famiglia – una casa dove siamo nati, acquistata da mio padre nel 1964 – e l’abbiamo trasformata nella nostra bottega sartoriale. Ci abbiamo aggiunto: nuovi macchinari non industriali, un archivio di tessuti vintage e siamo andati alla ricerca di nuovi fornitori.
Come è avvenuta la staffetta generazionale?
Anche se può sembrare strano, papà ci ha messo alla prova, consigliandoci di continuare a studiare fuori della Sardegna dopo il diploma. Conosceva bene la fatica di questo lavoro e non voleva che avessimo solo una opportunità: cioè, la sartoria. Così io e Nicolò un giorno partiamo per Milano. Lui si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza, io ad una Scuola di moda. Dopo due anni torniamo nella nostra città, sicuri di voler continuare nella sartoria.
Mio padre al nostro fianco, a fare da supervisore fino all’età di 88 anni. Siamo sempre stati legati a lui. La staffetta è avvenuta con il nostro consenso e nel rispetto delle nostre competenze e dei nostri desideri. Ci ha lasciato la gestione con grande tranquillità e non si è mai intromesso nei nuovi progetti. Anzi, ne è sempre stato entusiasta.
Avete puntato anche sulla formazione.
Sì. Nel 1995, tornando da Milano, decido di aprire a Nuoro l’Istituto Moda e Immagine, convinto che la scuola avrebbe salvato il mondo della sartoria, in quel periodo un po’ in crisi. Oggi molti nostri allievi hanno fatto strada, tante aziende sono nate con la scuola e altre hanno trovato nuovi modi per rendere il proprio lavoro innovativo e moderno. La scuola offre un aggiornamento professionale continuo. Abbiamo ragazzi che lavorano per grandi brand, altri hanno creato un marchio proprio. Io studio ogni giorno moda su piattaforme avanzate e magazine di settore.
Che tipo di ricchezza avete prodotto per la Sardegna?
Abbiamo creato in Sardegna un punto di riferimento generazionale della sartoria, proposto un nuovo modo di vedere le tradizioni e rappresentarle. Indossare i nostri abiti – vestiti non più folcloristici – regala un senso di appartenenza alla nostra Isola. Volti e nomi noti del mondo dello spettacolo sono nostri clienti. Ci chiedono l’abito di velluto nero, preferito dalla borghesia agropastorale sarda. Alcuni musicisti indossano i nostri abiti durante i loro concerti. Qualche aneddoto: Roberto Vecchioni, una volta, va a registrare a Milano nella stessa sala in cui c’erano i Nomadi. Beppe Carletti, vedendo Vecchioni arrivare con la giacca di velluto nera, disegnata in tipico stile sardo, gli dice: Sembri uscito dalla sartoria dei fratelli Pinu. E questo perché loro l’anno precedente si erano fatti cucire da noi gli abiti per un concerto. Vecchioni ride e conferma che si trattava dei nostri abiti. Nostri clienti sono stati anche: Paolo Fresu, Luca Carboni, Eugenio Finardi, Tullio De Piscopo, Paola Turci, Alberto Bertoli e tanti altri. Uno degli ultimi clienti, il giornalista Giulio Golìa.
Come battete la concorrenza?
Stiamo lontani dagli stereotipi, dalle regole del mercato che vogliono la fast fashion, non inseguiamo la concorrenza, studiamo tanto moda e marketing, siamo attivi sui social media. Il cliente oggi aspetta da noi proposte alternative. Ci sforziamo di anticipare sempre un trend per i nostri clienti che vogliono sempre qualcosa di originale. Diciamo che lavoriamo in modo parallelo alle mode. Battere strade nuove ci stimola e ci fa crescere.
Cosa significa creare un capo di alta sartoria oggi?
Impiegare del tempo, che va oltre le esigenze di un mercato mordi e fuggi. Si tratta di conservare a proprie spese il proprio nome e la qualità dei propri prodotti, facendo ancora tutto a mano.
Chi vorreste avere come cliente in futuro?
Uno che ha cultura sartoriale e non parta da zero. Uno che abbia una educazione sentimentale al nostro lavoro. Per questo quando qualcuno viene a trovarci raccontiamo sempre la storia di papà Aurelio. Teniamo a far capire come si sviluppa un abito dal disegno alla realizzazione. I nostri clienti hanno imparato ad apprezzare il nostro lavoro -cartamodelli realizzati ancora su carta- oltre al tempo che impieghiamo e scandisce i vari passaggi del confezionamento di un abito: dalla fase del taglio e dell’imbastitura a quella della prova e della rifinitura.
I vostri abiti un giorno vestiranno conduttori e cantanti di Sanremo? Un sarto di Martina Franca ha vestito Drusilla Foer.
Gli sponsor della moda, che sono grandi brand, hanno il dominio su tutti gli outfit di cantanti, soubrette e presentatori. E’ molto difficile vestire qualcuno al Festival di Sanremo. Siamo, però, arrivati al Festival del cinema di Venezia, vestendo qualche attore alla prima.
In futuro?
Il futuro è legato alle piattaforme del web. Tutta la moda si sta spostando lì, creando un vuoto nelle relazioni personali. E questo non piace a chi come noi, quando crea, si ispira anche all’odore, allo sguardo, al modo di parlare e camminare dei nostri clienti. Ma ci stiamo attrezzando, come abbiamo fatto durante la pandemia, senza abbandonare del tutto i luoghi e gli incontri fisici. In futuro dovremo potenziare l’e-commerce, rivedere i tessuti che dovranno essere sempre più ecosostenibili. Abbiamo in mente anche di aprire una sorta di Museo in cui, mentre si guarda un’opera d’arte, si possano prendere le misure per una camicia.
Di cosa avrebbe bisogno oggi una realtà come la vostra, che si trova in una regione isolata? Il Pnrr potrebbe darvi una mano?
Avremmo bisogno di visibilità attraverso i social, di potenziare il commercio on line. I fondi europei? Mi auguro che vadano anche a categorie poco considerate perché incapaci di fare grandi numeri. Noi non facciamo numeri alti, ma credo che in qualche modo contribuiamo a far ricca la nostra regione: portiamo in giro l’immagine della Sardegna con i nostri abiti. Siamo un punto di riferimento per il futuro di molti ragazzi che vogliono diventare sarti, ma anche per i loro padri, che il mio papà ha vestito più di quaranta anni fa. Lui non ha solo cucito abiti. E’ stato il confidente, l’amico di molti suoi clienti. E ne ha avuti anche tra deputati e senatori. Oggi mentre mio fratello gestisce il negozio e il front office, io faccio quello che ho sempre sognato di fare: gestire la parte manuale, cioè, prendere misure e avere un rapporto diretto con i clienti. E questo grazie a papà, che è morto nel 2018, ma vive in ogni cosa che facciamo.