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Rodolfi Mansueto Spa è un’azienda familiare della provincia di Parma attiva dal 1896 nel settore della trasformazione del pomodoro e più nota per il suo marchio Ortolina. Grazie alla capacità costante di diversificazione e rigenerazione del business, la realtà è giunta alla terza generazione. Sotto alla guida di Aldo Rodolfi, nipote del fondatore, l’impresa è cresciuta ulteriormente fino a raggiungere un fatturato di 120 milioni e 120 dipendenti fissi e 400 lavoratori stagionali. Qui l’intervista con il Presidente.
Iniziamo a conoscere meglio le origini di una azienda familiare vocata e legata in maniera significativa ad un terra e alla sua tradizione. Come è nata l’impresa?
La nostra storia nasce due secoli fa, siamo alla fine dell’Ottocento quando mio nonno Mansueto Rodolfi era apprendista in un caseificio di San Ruffino (Parma) nella stessa zona dove il papà di mio nonno, Giuseppe, e lo zio Remigio lavoravano il pomodoro in una piccola fabbrica. Inizialmente il suo progetto non era direttamente legato alla commercializzazione del pomodoro, perché il suo sogno era di riuscire a mettersi in proprio e intraprendere una sua attività lattiero casearia in autonomia. Nel 1906 trova e rileva un piccolo caseificio a Ozzano Taro. Ben presto la produzione del Parmigiano viene completata dalla coltivazione del pomodoro. Mio nonno ha l’idea di commercializzarlo come prodotto trasformato di gastronomia e la cosa piacque molto con la domanda che iniziava a crescere. Da bottega artigiana il business comincia a svilupparsi nella forma dell’industria.
La prima tappa della lunga cavalcata del business familiare è stata gestita interamente dal fondatore. Parliamo della trasformazione che è successa dopo…
Il secolo scorso è stato segnato da due guerre. Durante il conflitto mio nonno viene chiamato alle armi prestando servizio negli Alpini (da qui nascerà il nostro storico marchio Alpino ben raccontato nell’attuale Museo del Pomodoro). Il caseificio viene bombardato più volte e molto duramente. Nel 1945 mio nonno e i suoi due figli, mio papà Giuseppe e lo zio Lucio, si rimboccano le maniche per ricominciare da lì. Mi sento di affermare che sono stati dei pionieri che con coraggio hanno creduto fermamente nel settore agricolo in un momento in cui la povertà era diffusa, quando anche i grandi latifondisti erano in crisi. Armati di determinazione, perché convinti della bontà del loro prodotto, che oggi tutto il mondo ci riconosce, e con un pizzico di fortuna, hanno iniziato a dettare le regole e le tendenze del mondo agricolo. La struttura della governance era piuttosto lineare: tutti dovevano essere competenti di tutto senza una divisione dei ruoli rigida. La flessibilità è la caratteristica precipua della nostra azienda da sempre: avere una struttura snella permette di essere più flessibili e resilienti. Dal punto di vista della strategia, la stagione della seconda generazione è stata concomitante alla definitiva destagionalizzazione produttiva della produzione orticola, con particolare riferimento al pomodoro che, trasformato e conservato, era disponibile tutto l’anno. E quindi, come la storia insegna, quel desiderio nascosto che fa di un uomo un creatore di stirpe, portò mio nonno e i suoi figli a fare delle scelte. Con i volumi che aumentavano in maniera costante si scelse la strada della specializzazione, con la parte agricola originaria (intendo la produzione lattiero casearia) che andò un pochino persa. La seconda generazione, mio padre e mio zio, hanno aiutato mio nonno a completare il passaggio da azienda agricola a industria. La collaborazione compatta tra mio padre e i suoi figli è durata fino agli anni Settanta.
Come è stato rigenerato il business familiare dopo il salto da az. agricola a industria?
Sono gli anni Cinquanta, il boom economico aiuta la domanda interna, ma mio nonno e i suoi figli guardavano già oltre e pensavano ai mercati internazionali. Per conquistarli, la parola d’ordine era qualità che è costosa. E per averla bisognava investire. Se stai a guardare il costo è difficile tu riesca a fare un buon prodotto. Si investe nell’acquisto di moderni macchinari in acciaio inossidabile che andavano a sostituire i contenitori in rame. La tecnologia funzionò da volano per un ulteriore aumento della specializzazione produttiva. In questo periodo nasce Ortolina che, sulla base di una ricetta casalinga del 1936, veniva confezionato come sugo pronto e reso disponibile come prodotto industriale per il mercato estero. Il successo fu strepitoso. Unitamente alla specializzazione i nuovi standard tecnologici permettevano una maggiore diversificazione: con i nuovi impianti si producono oltre ai sughi pronti anche le salse, la passata, la polpa di pomodoro per conto di numerosi marchi privati che sempre più frequentemente bussavano alla porta individuandoci come una garanzia di qualità. La crescita sembrava inarrestabile raggiungendo un momento di climax negli anni Settanta. E proprio con l’inizio del nuovo decennio, nel gennaio del 1970, si spense mio nonno Mansueto. Io purtroppo non l’ho mai conosciuto.
Arriva il momento della terza generazione e tocca a te prendere le redini. Come sei stato allenato nelle competenze?
Entro in azienda appena completati gli studi, benché in tutto quel periodo io già seguissi le campagne del pomodoro lungo tutti i passaggi della filiera dalla produzione alla commercializzazione. Per fare questo mestiere occorre un certo grado di convinzione: lavori in estate, quello è per noi il periodo di massima intensità, quando banalmente gli altri programmano le vacanze. Non ho fatto esperienze in aziende terze perché probabilmente si riteneva che io fossi pronto per l’ingresso dal momento che, sia in famiglia sia a tavola, ho respirato l’atmosfera del fare impresa. Si parla da molto tempo di cultura organizzativa, l’insieme degli assunti fondamentali che guidano l’organizzazione. Essa si concretizza nei comportamenti del quotidiano, nei valori e nelle relazioni che caratterizzano l’organizzazione stessa sia al suo interno che al suo esterno. L’insieme di tali convinzioni e valori non può che partire dalla famiglia che giorno per giorno li trasmette implicitamente, anche in un momento conviviale piuttosto che in un colloquio, rafforzando l’identità dell’impresa che li attua nelle sue politiche interne. Sono stato allenato ad avere una attitudine ad un certo modo di fare business che nel tempo diventa spontanea e che serve a dare risposte efficaci ai repentini cambiamenti del mondo così come alle esigenze emergenti del mercato.
Qual è la tua definizione di leadership?
Essa è un misto di competenza, esperienza e conoscenza per essere abili ad offrire risposte in tutte le situazioni. Salta fuori nella gestione delle crisi e nella gestione delle situazioni emergenziali -soprattutto quando è il momento di fare scelte di coraggio, magari scomode, ma necessarie e per farle il leader è colui che trasmette la fiducia, la stessa che mio padre diede a me da subito buttandomi in azienda in prima linea.
Come si è evoluta la tua leadership e come hai innovato la governance?
Potrà sembrare un paradosso, ma il modo in cui la mia leadership si è rafforzata è stato imparando a delegare e creando un team di persone competenti e capaci. Ho lavorato con papà per vent’anni e non nascondo che i punti di vista erano diversi, come spesso accade nelle migliori famiglie al comando. Anche per lui valeva la regola del “si è sempre fatto così, perché lo mettiamo in discussione?”. Mi spingo a giudicare che esternamente il suo stile di direzione poteva apparire autoritario e sbilanciato verso il paternalismo accentratore. Lo capisco. Quello che io avevo iniziato a notare era lo scarso grado di autonomia di cui i suoi collaboratori soffrivano: le decisioni venivano prese senza considerare un input creativo da parte dei subordinati. Mio padre aveva una visione chiara del quadro generale, ma quel quadro era disegnato rispetto ad un periodo storico del passato con la crescita costante di fatturati e dimensioni che imponeva di cambiare e adattarsi ad un nuovo modello di business. Volendo essere più diretto: lo stile di direzione autoritario è azzeccato quando la dimensione te lo consente, ma nel momento in cui aumenta la complessità si fa fatica a tenere tutto sotto controllo da soli ed entra in gioco il tema della delega. È un tema delicatissimo perché si tratta di distribuire la responsabilità decisionale. La mia scelta è stata investire sulle persone creando un team di collaboratori motivati e competenti che raggiungessero l’obiettivo finale. Accetto le opinioni dei miei collaboratori anche se sono diverse dalle mie perché penso che sarà migliore il risultato finale. Mi viene da dire che per la mia esperienza lo stile di direzione partecipato e basato sul sistema delle delega è il più efficace per gestione della governance aziendale e porta significativi ritorni in termini di redditività.
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