giovedì, Dicembre 12, 2024

I SALOTTI DI FAMILY BIZ

La Governance proprietaria, aziendale e familiare nei family business   

2025 - Milano - Bologna 

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Il caso Auricchio SpA

di Sara Colonna

Auricchio SpA è un family business leader mondiale del provolone, fondato nel 1877 da Gennaro Auricchio a San Giuseppe Vesuviano- vicino a Napoli. Il cognome della famiglia è anche omonimo del suo prodotto ed è proprio grazie a questa familiarità e legame con il territorio che la Auricchio Spa vanta una stabilità temporale e una solidità patrimoniale che dura da oltre 150 anni. Conosciamo meglio questa realtà attraverso la testimonianza dell’attuale Presidente, Antonio Auricchio.

Quali sono i momenti salienti che hanno segnato la crescita di un family business secolare?

 

La storia del provolone migliore al mondo inizia ufficialmente nel 1877, ma ufficiosamente nel 1859, poiché ci sono testimonianze di un’attività di vendita di provolone, taralli e salame al peperoncino da parte del mio avo, il papà di Gennaro, il mio bisnonno, che depositò la ricetta del provolone in banca sul finire dell’Ottocento. Inizia a delinearsi uno stretto legame tra la marca del produttore e il consumatore: il cognome Auricchio è il sinonimo del formaggio stesso. Gennaro incarica uno dei figli Antonio, mio nonno che si chiamava come me, di cercare pascoli più fiorenti per ovviare alla scarsità di latte in Campania dal momento che non si riusciva a far fronte a tutte le richieste del mercato che si stava ampliando: il provolone era un prodotto dal successo straordinario. Antonio si mette in viaggio alla volta della Pianura Padana, zona naturalmente fertile e ricca di pascoli, visita Mantova, Parma dove incontrerà la sua futura moglie Guglielmina Ferrari dalla quale ebbe quattro figli dei quali il primo fu mio padre Gennaro e Cremona dove sorsero i primi stabilimenti produttivi organizzati sulla base del sistema delle cascine locali. A quel tempo, nel Nord Italia, il provolone era un formaggio sconosciuto. Anche mio padre Gennaro sposò una parmigiana e nel 1949 la sede legale e amministrativa viene trasferita a Cremona, dove la produzione contava su un centinaio di caseifici dislocati lungo la Pianura Padana. La Auricchio diventa una società per azioni. Inizia anche l’espansione internazionale favorita dal flusso migratorio degli italiani all’estero, diretti soprattutto verso gli Stati Uniti, dove il formaggio italiano viene fatto trasportato, fatto conoscere e immediatamente ricercato. Il provolone continuava ad essere stagionato a San Giuseppe Vesuviano e da qui distribuito oltreoceano. Nel 1976 la produzione viene definitivamente concentrata a Cremona, a Pieve San Giacomo, dove si realizza uno dei primi esempi italiani di filiera corta: l’approvvigionamento del latte che arriva da allevamenti autoctoni siti ad una distanza minore di cento km.

 

Le imprese familiari italiane fanno gola agli investitori esteri. Che cosa è successo nella vostra storia di impresa?

 

L’inizio degli anni Novanta sono segnati dalla crisi economica che morde e, alle porte di Auricchio, bussa una multinazionale estera che presenta una offerta interessante per il 50% delle azioni. La metà del capitale stava passando in mano estera. La decisione è stata di restare fedele alla tradizione ed alla famiglia: mio padre Antonio, con i miei fratelli ed io, rileviamo tutte le azioni che erano state messe in vendita ricomponendo la proprietà in un unico nucleo familiare esattamente come nel lontano 1877. Il plusvalore di un’impresa familiare è la componente di passione, determinazione ed energia che sono la famiglia originaria riesce a restituire. Da questo momento in poi la crescita è inarrestabile. Nel 1994 vengono potenziati gli stabilimenti di San Giuseppe Vesuviano e Cremona, dove l’intero reparto di produzione è completamente rinnovato. Nel 1997 vengono acquisiti i marchi Ceccardi, Locatelli dalla Nestlè Italia e Gloria. Al contempo lanciamo il sigillo di qualità superiore “Riserva Esclusiva Auricchio”, che ci rende una azienda lattiero casearia dotata di una gamma unica nel mercato mondiale. Nel 2007 festeggiamo i 130 anni della azienda. Nel 2016 entrano nel nostro portafoglio i marchi Caseificio La Villa e Pecorella ampliando la produzione di DOP Gorgonzola, taleggio, salvo cremasco e  quartirolo oltre che ricotte e mozzarelle. La strategia di crescita per acquisizione è continuata anche negli anni recenti quando nel 2020, in pieno Covid, abbiamo comprato Cascine Emiliane, produttore di Parmigiano Reggiano di altissima qualità e Caseificio Giordano, produttore di mozzarelle di latte vaccino e bufala. L’ultima operazione in ordine temporale è stata nel 2022: l’acquisizione di 3B Latte, connessa ad una gamma di formaggi freschi di altissima qualità fra cui spicca il camembert di capra. Oggi siamo un’azienda familiare che è un gruppo internazionale la cui missione è coltivare le eccellenze.

 

Una grande impresa guidata da una grande famiglia, laddove il vero nodo da sciogliere è quello del ricambio generazionale. Come avete affrontato le problematiche connesse a questo tema?

In moltissimi casi la successione in azienda è un freno, anziché rappresentare una spinta innovativa verso il cambiamento, magari nella direzione del superamento di ostacoli che provengono da sfide esogene come la globalizzazione, la riduzione dei margini di profitto, le attese sociali e ambientali. Se a questi fattori si aggiungono una serie di elementi peculiari dell’impresa familiare come il controllo parentale, le insufficienti relazioni familiari o i difetti di comunicazione, le aziende che non hanno chiara la soluzione a questi aspetti potrebbero incontrare dei problemi. Il fenomeno non è da sottovalutare e non farsi aiutare è una non scelta che può avere delle conseguenze per la continuità imprenditoriale. La nostra storia è invece secolare e siamo alla quinta generazione. Per arrivarci occorre farsi aiutare. Ma farsi aiutare da chi? Innanzitutto dalla propria famiglia, in quanto la chiarezza e la trasparenza dei rapporti famigliari sono anche alla base di un team di manager  che lavora in azienda. L’indiscusso capo del nostro team è nostra madre che alla nobile età di 96 anni ci riunisce tutte le domeniche a cena, un vero e proprio consiglio di amministrazione che funziona come momento di coesione del team e come lavoro di confronto. Altrettanto fondamentale come un team building aziendale, perché replica il lavoro di confronto con la realtà esterna (fornitori, clienti, partners) che hanno interessi con noi. Noi siamo un’azienda familiare che è una piccola multinazionale, il nostro cuore è in Italia e la nostra testa nel mondo. Per tenere la barra dritta nello scacchiere internazionale occorre piantare un albero con le radici ben solide nella tradizione dei nostri padri fondatori e della nostra terra. Personalmente ero una carta assorbente di papà Gennaro che mi accompagnava nei caseifici facendomi mettere la mano nel latte che da liquido diventava solido e infine formaggio, commentava così: «Hai visto Antonio? È avvenuto il miracolo». Le imprese familiari italiane sono quotidianamente capaci di fare tanti piccoli miracoli di capacità creativa, intuito, organizzazione, che il sistema economico mondiale ci riconosce in termini di qualità e visibilità del Made in Italy. Per esempio il nostro formaggio continua ad essere fatto a mano come era nell’Ottocento, siamo artigiani con un saper fare di lungo periodo. Una delle sfide più importanti che le aziende familiari si trovano ad affrontare è quella del mantenimento dei valori dell’ artigianalità di lungo corso nel passaggio del testimone alle nuove generazioni.

 

Com’ è organizzato l’assetto di governo della vostra impresa familiare?

Siamo tre fratelli: io sono il maggiore, come tale sono presidente dell’azienda e mi occupo di investimenti, supervisiono la produzione e gestisco gli acquisti che in una realtà lattiero casearia significano circa l’80% della spesa aziendale. A Giandomenico è delegata la funzione amministrativa e rapporti istituzionali. Alberto è il minore e si occupa di marketing e commerciale. 
Ognuno di noi ha figli maschi che abbiamo mandato in giro a fare esperienze e farsi le ossa in altre aziende prima di guadagnarsi l’ingresso nella nostra. Due di loro sono già entrati e altri due entreranno in un prossimo futuro. Così abbiamo ritenuto di poter affrontare il problema della mancanza di eredi validi o la loro eventuale incapacità di gestire l’azienda. Il rigore che ci ha insegnato nostro padre serviva a non farci dimenticare che siamo sì nati con la camicia, ma che abbiamo al contempo una grande responsabilità. In Auricchio consideriamo molta attenzione a questa problematica. Nel momento in cui gli eredi si sono dimostrati validi e motivati allora l’assetto della governance è paritario e siamo tranquilli perché a quel punto vi sarà un elevato livello di identificazione tra famiglia e impresa. Non esiste una sovrapposizione di competenze fra di noi. Per esempio le decisioni di investimento sono prese in maniera collegiale. Se la trasposizione totale di un senso di solidarietà e di democrazia interna alla famiglia potrebbe apparire un minus per l’appesantimento della struttura aziendale, noi ne abbiamo sempre fatto un plus con i costanti miglioramenti della performance economica e fatturati in costante crescita a dare la prova del nove della bontà delle nostre scelte. Se la struttura proprietaria è tradizionale, data la prevalenza della componente familiare, questo non significa che non vi sia apertura agli esterni. I miei fratelli mi hanno permesso di fare ricerca e sviluppo in ottica di investimenti in qualità del prodotto e per questo motivo sono costantemente occupato in studi e visite di nuovi stabilimenti. Tutte le aziende che abbiamo comprato mi hanno offerto un accrescimento di cultura generale, che ho riportato in azienda in termini di nuova cultura organizzativa. Nella nostra organizzazione esistono regole formalizzate (statuto, patti parasociali) per la trasmissione dei valori fondanti della missione aziendale, che consiste nel custodire la tradizione in ottica moderna, ma contemporaneamente avvertiamo l’esigenza di un miglioramento continuo che passa necessariamente per contaminazione esterne.

 

Spesso la necessità di salvaguardare il buon nome rende poco allettante per l’impresa familiare puntare su operazioni rischiose o speculazioni azzardate che rischino di offuscare la reputazione?

L’operazione più rischiosa che una impresa famigliare possa effettuare è quella di smettere di investire nella sua reputazione di mercato che dal mio punto di vista fa rima con qualità. Se devo investire in nuovi impianti di confezionamento ne compro uno all’anno ma di elevatissima qualità. La nostra strategia di crescita è stata per acquisizioni esterne. Che cosa abbiamo comprato? Nicchie. Avremmo potuto scegliere di comprare un unico grande stabilimento, che sfornasse numerose referenze sfruttando economie di scala e certamente avremmo risparmiato. Ma non ci interessava risparmiare bensì investire, è diverso. Noi coltiviamo eccellenze. Abbiamo comprato un piccolo caseificio, Colombo, che oggi fa parte dei premium price nel mercato statunitense per esempio. Lo stesso si dica per il caseificio che produce il Pecorino Locatelli, egualmente riconosciuto premium price nell’ostico mass market americano. Siamo riusciti a vendere il Camembert prodotto con latte 100% italiano ai francesi, con la Francia ad essere la mamma di questo squisito formaggio. L’adozione di valori guida della famiglia, il mio papà è stato educato alla qualità da suo papà che lo è stato da suo nonno e via discorrendo, ha permesso di investire senza intraprendere pericolose strade che deviassero dalla missione originaria di quel piccolo caseificio nato nel 1859, un ottimo volano che ha conferito alla crescita una ponderata ma costante strada di sviluppo. Se impresa e famiglia vengono percepite come distinte, se non fossimo rimasti fedeli a quella idea di qualità portata avanti dal mio trisavolo, allora l’azienda sarebbe entrata in crisi nel medio lungo periodo. La logica dell’altissimo valore aggiunto in termini di qualità e artigianalità che comporta costi importanti per essere mantenuta è portata avanti, perché non contrasta con la possibilità della economicità ed espansione economica dell’impresa ma, al contrario, ne costituisce il perfetto propellente. 
 

 

All’interno del ciclo di vita del suo family business che cosa dice a suo figlio affinché possa formarsi a affermarsi come leader?

L’evento critico e ineluttabile del passaggio generazionale, dal quale può dipendere o meno la continuità del mio lavoro e della azienda, è di fatto un trasferimento di proprietà e di competenze. Io perdo il controllo che passerà nelle mani di mio figlio al quale dico: innamorati come ho fatto io. Il ricambio al vertice è un momento critico in ogni tipo di organizzazione e la soluzione non sta mai al livello del problema perché la soluzione è non avere questo problema. Il solo modo di non avere questo problema è innamorarsi dell’azienda e della cultura familiare. Se la persona che è alla guida dell’azienda è innamorata dell’azienda, i suoi collaboratori lo percepiscono e si innamoreranno a loro volta della missione. Occorre che tutto il team sia allineato e sposi la causa aziendale. Non si tratta cioè solo di assicurare un futuro all’azienda, ma anche di prevenire e conflitti tra i diversi membri coinvolti. Il processo di transizione dai padri ai figli si può porre degli obiettivi, talvolta contrastanti, ma se si è innamorati allora i divari si stabilizzano  e si mantiene l’equilibrio. La delicatezza del tema non deve trarre in inganno: il futuro leader deve avere il coraggio del leone unito all’umiltà dello scolaretto che è curioso di imparare e vuole aggiornarsi costantemente. Queste sono le doti che influenzano la personalità del leader e lo svolgimento del processo di successione, che si realizza quando le qualità si esplicano in quello che riesce a compiere in modo che le performance aziendali non ne abbiano a risentire e ne traggano giovamento.

 

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