Le imprese di famiglia di prima generazione presentano delle caratteristiche peculiari all’interno dell’area del Family Business. Ne parliamo con Elena Binacchi di OPEM Spa, azienda specializzata in impianti per il packaging con sede a Parma.
Fondata nel 1974 da Fabio Binacchi, negli anni Ottanta OPEM ha iniziato a lavorare con grandi clienti come Barilla o Kimbo, e con il passare degli anni ha visto espandere i suoi orizzonti anche all’estero, cogliendo con lungimiranza l’opportunità costituita dell’arrivo delle cialde e delle capsule. Nel settembre 2014 è stato inaugurato il nuovo stabilimento, sempre nell’area industriale di Parma: un segno di continuità, ma al tempo stesso di fiducia nel proprio know how e di apertura verso il futuro.
Elena, parliamo delle trasformazioni di questi ultimi anni: quali sono gli orizzonti attuali, le trasformazioni in atto e il vostro core business.
Per una richiesta specifica di alcuni clienti, abbiamo deciso di costruire una nuova sede più funzionale: è molto innovativa, anche dal punto di vista energetico. Da lì parte la nuova fase di OPEM. In questi anni ci stiamo espandendo sempre più verso l’estero. Ad esempio abbiamo aperto una sede in Brasile, che ci ha portato a intraprendere anche nuove soluzioni: visto che lì c’è un potere d’acquisto differente, oltre a costruire gli impianti in loco abbiamo deciso di fare anche produzione per il cliente: diamo cioè la possibilità di produrre con il nostro impianto per circa un anno, così che i nostri clienti possano proporre sul mercato il loro prodotto e, se le cose vanno bene, comprare poi l’impianto. Attualmente il nostro core business è il settore del caffè: i nostri clienti sono il torrefattore, la multinazionale, il cliente piccolo che sta crescendo. In Italia lavoriamo con aziende come Illy, Lavazza, Caffè Borbone, e poi tutto il resto all’estero, circa il 75%. Con il Covid purtroppo non ci siamo potuti spostare come facevamo prima: lavorando molto con i Paesi asiatici, dato che abbiamo una sede anche a Singapore, è tutto più difficile se non hai un confronto diretto. Parallelamente abbiamo cercato di fare assistenza da remoto, perché i nostri sono impianti molto complessi. Ora abbiamo in mente di aprire una sede negli Stati Uniti, dove abbiamo già uffici di rappresentanza. È fondamentale avere delle sedi all’estero, perché il cliente vuole sentirci vicini, anche se spesso i nostri tecnici partono comunque dall’Italia.
Quali sono state le tappe del tuo ingresso in OPEM?
Come penso sia capitato a molti altri discendenti, inizialmente non volevo entrare nell’azienda dei miei genitori. Prima facevo altro: ho lavorato per un’agenzia di comunicazione, realizzavo mostre di arte contemporanee e mi divertiva molto – mi è stato molto utile, perché adesso mi occupo comunque di comunicazione. Quando sono entrata ho cominciato prima dal magazzino, poi dopo in produzione, ufficio acquisti, e un po’ alla volta, in punta di piedi, al marketing. L’azienda è ancora di prima generazione, quindi presenta dinamiche un po’ differenti rispetto ad altre imprese di famiglia. Bisogna essere umili. Se sei figlio, non vuol dire che sei anche imprenditore: i miei genitori sono bravissimi e carismatici, ma non è detto che tu sia la stessa cosa. Loro si sono fatti da soli, e non è facile insegnare agli altri i segreti del mestiere. Bisogna entrare nell’ottica di dover imparare ancora tanto. Ho avuto la fortuna che nel 2013 entrò nel commerciale una persona che proveniva da un’altra azienda. Mi invitò a andare più in giro, per le fiere internazionali. E aveva ragione, è stato fondamentale. Così ho potuto anche accompagnare il settore commerciale nei rispettivi Paesi di riferimento: avere con sé un membro della famiglia fa tutta la differenza del caso, perché implica un altro tipo di attenzione da parte dei clienti, che hanno piacere a interfacciarsi direttamente con noi.
Elena Binacchi, OPEM Spa
Qual è stato il tuo valore aggiunto in un’azienda già ben avviata? Che innovazioni hai apportato?
Innanzitutto ho cominciato a fare immagine coordinata, che mancava completamente, dai block notes alle penne. Sembrano piccolezze, ma sono fondamentali per presentarsi a un’altra azienda. Il vero turning point è stato però quando mi diedero il primo stand da fare per Interpack, la fiera del packaging a Düsseldorf. Prima nessuno si occupava propriamente di comunicazione, la facevano un po’ tutti. Date le mie esperienze precedenti, ho cercato di portare le mie competenze all’interno di OPEM: l’allestimento prevedeva mura altissime, di 5 metri, nelle quali abbiamo appeso delle gigantografie con i nostri dipendenti, come a dire: “le nostre mani nel cuore dei vostri impianti”. Erano vere e proprie foto artistiche fatte da un fotografo professionista, che decoravano anche le pareti trasparenti degli interni: ho fatto degli uffici semichiusi, non completamente a parte come si fa di solito. Lo stand ha riscosso molto successo, perché era diverso rispetto a tutti gli altri; la gente pensava chissà quale cambiamento ci fosse stato, e invece era tutto uguale, era cambiata solo la comunicazione, appunto, e quindi anche la percezione dei nostri clienti. Mio padre, che è il presidente dell’azienda, era molto contento, mi ha detto che era lo stand più bello che avesse mai visto. Un’altra iniziativa, pensata durante la pandemia, è l’area Leave a sign del nostro sito, nella quale è possibile customizzare gli impianti, con una grafica personalizzata. È una novità molto apprezzata dai nostri clienti, specie i più giovani: quando si entra nelle loro aziende non si vede più il classico impianto grigio, ma qualcosa di unico e colorato, che oltre a essere funzionale fa però tutta un’altra figura.
Quali sono i momenti critici che deve affrontare una discendente all’interno di un’azienda di famiglia? Qual è di percorso migliore in questi casi, anche in termini di ricambio generazione?
È molto difficile. In Italia si parla tanto di ricambio generazionale ma mai in maniera reale. All’estero non funziona così. Basta pensare che nelle unioni industriali i gruppi di giovani hanno tutti più di quarant’anni: il problema sta proprio a monte, è culturale. Nel nostro caso ci stiamo affidando a una società di Milano, Ambrosetti, che ci sta dando una mano in questo processo. Facciamo delle riunioni a cadenza mensile alle quali partecipiamo noi della famiglia: mio padre e mia madre, Vittoria che è la sorella più grande, Susanna che è la media e io, che sono la più piccola. Ciò che manca molto spesso è proprio una buona comunicazione. I miei si sono fatti da soli, questa è la loro azienda, potremmo dire il loro primogenito, e quindi hanno giustamente un occhio di riguardo. Prima prendevano decisioni in completa autonomia, adesso invece è diverso. È difficile proporre qualcosa di nuovo, anche se io stessa nel mio piccolo ci sono riuscita ogni tanto, ma molto lentamente. C’è da dire, d’altra parte, che quello che facciamo noi giovani all’interno delle aziende di famiglia andrebbe forse comunicato anche un po’ meglio. Ogni cosa ha le sue tempistiche. Mia sorella Vittoria, ad esempio, ha avuto anche la possibilità di conoscere un’azienda diversa; io sono entrata quando era già tutto fatto, non puoi pretendere di conoscere ogni cosa, di avere la bacchetta magica. Ho fatto un master in Business Administration a Bologna: bellissimo, però poi c’è da metterlo in pratica, e non è così semplice. Serve umiltà. Bisogna rispettare i colleghi e i dipendenti che sono in azienda da prima di te, non avere paura di chiedere aiuto e di farti spiegare le cose.
OPEM Spa
A proposito di colleghi e dipendenti, qual è il rapporto con loro?
A livello di welfare aziendale proprio in quest’ultimo mese abbiamo dato 1000€ in più in busta a tutti, e dei buoni benzina per fronteggiare i rincari. Abbiamo poi creato un accordo con la banca, per cui diamo dei prestiti fino a 15.000€ a chi lo richiede con tassi agevolati: sappiamo che se il dipendente lavora in maniera tranquilla e non ha problemi lavora meglio, e quindi siamo contenti di poterlo aiutare. Cerchiamo in tutti i modi di creare un ambiente sereno: abbiamo una persona che due volte alla settimana si presta ad ascoltare i dipendenti che ne hanno bisogno. 120 non sono tanti, ma nemmeno pochi: non è facile interfacciassi con tutti. Il prossimo fine settimana, a proposito, andremo in montagna per fare team building. Facciamo poi delle sponsorizzazioni come ad esempio con il Festival Verdi, ma non vogliamo che questa nostra scelta si limiti nel dare dei soldi. Invitiamo infatti i nostri dipendenti a partecipare, regalando loro dei biglietti per andarci con i famigliari. La nostra azienda è fatta per il 50% di lavoratori metalmeccanici, e quindi poter avvicinarli ad ambiti della cultura anche distanti credo sia importante. Alcuni poi si sono appassionati molto, grazie anche all’ottima gestione della direttrice artistica del Festival Anna Maria Meo, che ha rivoluzionato il modo di andare a teatro qui a Parma, facendola diventare un’esperienza molto più coinvolgente e immersiva.
Quali sono infine i tuoi obiettivi? Ti piacerebbe ad esempio avviare nuovi business, o aggregazioni con altre realtà?
Qualcosa sto già facendo. Molte aziende adesso cercano in entrare in partnership, ma noi proponiamo una cosa diversa. Ad esempio la parte finale del nostro impianto, a seconda della velocità, ci permette di collaborare con aziende diverse. L’aspetto negativo di avere un partner è che non dai la possibilità al cliente di poter scegliere fino in fondo. Proprio per questo faccio parte di un gruppo, che si chiama Smart Packaging Hub, dove varie aziende si occupano di cose differenti ma possono collaborare fra loro. Il cliente sa che lì, oltre a noi, può trovare tutto quello che gli serve per una line completa: nel caso in cui non voglia collaborare con alcuni, può scegliere altri. Le aziende più grandi hanno invece tutto al loro interno, dove acquisti il pacchetto completo; nel nostro caso, invece, sai cosa offriamo noi e eventualmente con quali altre aziende possiamo collaborare, potendo scegliere liberamente. Stiamo inoltre cercando di lavorare su nuovi business come ad esempio il PET: sono entrata anche nel Pet Food Competence Network, che funziona un po’ come lo Smart Packaging Pack. Cerco insomma di portare l’azienda a diversificare e poter lavorare con più realtà, presentandoci sul mercato e nelle fiere con un impatto più incisivo. Oggi si deve lavorare veramente tanto nel marketing e nella strategia, sulla percezione psicologica che trasmetti. Alla fine la differenza sta tutta lì, sulla sensazione che dai, anche se magari dal punto di vista della produzione non è cambiato nulla, anche perché il nostro è già un ottimo prodotto.
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